Amo la natura ed ho scelto di vivere in un piccolo borgo immerso nel verde ai piedi delle Alpi Apuane dove le ombre del bosco incontrano il candore delle cave di marmo.

Il mio lavoro è mosso da un invincibile desiderio di dare leggerezza a ciò che è pesante, plasmare la dura pietra per renderla morbida, trasparente, sensuale.
Passione, la mia, per una scultura che della natura sappia esprimere delicatezza e forza, emozioni, ma anche il rigore dei fenomeni; una ricerca che si concentra in particolare sullo studio e l’osservazione delle foglie.
La foglia che sa trasformare l’arida terra in linfa si fa per me metafora della vita, foglia che è caduca ma si rigenera; foglie tutte uguali e mai una identica all’altra; foglie che costituiscono nel loro insieme quella sottile linea di confine tra Terra e Cielo.

Beatrice Taponecco
foto: Francesco Comello

EVA E LA POETICA DI BEATRICE TAPONECCO

Una foglia. Eva. Nell’albero da cui proviene: la vita.
Nella plasticità della sua forma, la seduzione primordiale, la trasgressione che rende la sua figura feconda all’infinito.
Le foglie morte si raccolgono insieme, ammucchiate. Le altre no; continuano a danzare sospese ad ogni anelito di vento, capace di dare ad ognuna di esse un nuovo lessico e con esso una nuova lettura che dispensa forme antropomorfe.
Le foglie di Beatrice, scolpite nella purezza bianca marmorea, sono questo e molto altro ancora. Sono l’energia che prende vita dalla materia, apparentemente fredda, che diventa madre di nuove creature, figlie dell’artista, capaci di generare calore e colore per le nostre anime. Per l’ artista non esiste separazione tra arte e vita.
Non esiste separazione tra materia e movimento plasmante. Esiste sofferenza e gioia nell’atto della creazione. Ogni volta è un distacco che, mano a mano, si staglia nella pietra che le mani modellano. E’ parte di se che dal corpo, nudo e privo di orpelli, si materializza per i nostri occhi, grazie a un linguaggio definito e riconoscibile. Un talento, misto al coraggio, capace di privare la materia di quella parte di essa che non la rende opera, ma solo medium del sentire più profondo.
Così è se vi pare, ma di più se lasciate che l’opera appaia come frutto del peccato primordiale. Come frutto di Eva. Perché scolpire, per l’artista, è una sfida con l’ignoto, con quel che, senza bozzetto, le sue mani sapranno plasmare.
L’opera è una mela colta dall’albero della conoscenza del bene e del male. Perché l’arte è gioia, trasgressione e se la donna, prima di disobbedire per assaporare il frutto proibito, era perfetta e immortale, è solo grazie alla consapevolezza della sua imperfezione che continua la ricerca della perfezione delle forme con cui rappresentarsi. Di ciò che mente e corpo possono partorire.
Un tentativo ammirevole, forse quanto inutile, sapendo che è perfetto è inimitabile e come tale assume il valore di un punto fisso nell’infinito, che si allontana ogni qual volta si prova a raggiungerlo.
Da questa spasmodica ricerca nasce l’impeto che da il senso all’opera e libera energia che si propaga cingendo l’osservatore, fino a condurlo nella stessa danza che le forme creano per i nostri occhi.
Il consiglio per l’osservatore è quello di lasciarsi andare, vincendo la materialità dell’opera per cogliere il sublime dell’arte. Di provare a trascendere, così da poter accarezzare l’anima dell’artista nascosta all’interno di ciò che ha creato, ispirata da ciò che di più universale rappresenta l’arte, da ciò che porta a sperimentare fino a trascendere, per poi ritrovarsi in ciò che più è metafisico grazie al levare materia alla materia.

 P. Asti

Biografia

Conseguito nel 2006 il diploma di Maturità Artistica a Carrara si iscrive alla Facoltà di Architettura di Firenze. I suoi interessi e la passione per l’arte la spingono ad iscriversi all’Accademia di Belle Arti di Carrara dove, nel 2016 consegue la Laurea triennale in Arti Visive con una tesi sul Bosco che da allora diventerà il soggetto della sua ricerca artistica e che affronterà nelle varie possibilità della materia nelle sue differenti declinazioni muovendosi tra scultura, installazione e fotografia.
Per il biennio di perfezionamento si iscrive al corso di scultura ed è qui che, guidata dal prof. Pier Giorgio Balocchi, scoprirà la sua vera grande passione per il marmo per cui lo stesso prof. Balocchi scriverà di lei: “Artista di talento delicato e potente che in questi ultimi anni ha dato ampia prova di se, creando opere dove la giovane età non fa velo alla squisita e compiuta esecuzione e dove la creatività si libra liricamente. In particolare Beatrice si è negli ultimi tempi dedicata proprio al marmo: ed in questo materiale ha composto sculture di stupenda fattura, nella più musicale realtà della “Scultura del Marmo” della Scuola di Carrara.”.
Conseguirà a pieni voti con lode la Laurea Specialistica (relatori P.G. Balocchi e Alessandro Romanini) nel 2019 con una tesi sul lavoro e la poetica di Gigi Guadagnucci la cui sensibilità e raffinata tecnica sono ancora oggi inimitabile fonte di ispirazione.
Ancora allieva dell’Accademia esordisce con la sua prima personale presso la galleria Il Duomo di Carrara, una importante mostra sul Bosco curata e presentata da Francesco Galluzzi: esposizione che spazia tra disegni, sculture in marmo, modelli in gesso ed installazioni sponsorizzata da Furrer s.p.a. con il patrocinio del Comune di Carrara e del Club Unesco Carrara dei Marmi.

Beatrice Taponecco

Nei boschi si può entrare – ci si può perdere e si può illuminarci. La pittura moderna è nata nei boschi (la foresta di Barbizon o quella di Fontainebleau) per trasferirsi in città (Parigi). È il percorso topografico dal paesaggismo en plein air francese della metà dell’Ottocento all’Impressionismo.
Il grande sogno dell’uomo è stato quello di penetrare nell’opera d’arte, di poter scivolare dentro l’immagine e viverla, scandito dalla ricerca di una suturazione di questa ferita d’ansia che ha prodotto lungo la storia dell’arte dei palliativi più o meno funzionali – dalla decorazione ad affresco degli ambienti, alla sinestesia delle costruzioni barocche, alle installazioni della seconda metà del Novecento fino alla realtà virtuale e al cinema 3D. In fondo cos’è l’arte, rispetto alla realtà, se non un palliativo?
Nelle fotografie non si può entrare, come non si può entrare nei dipinti e non si può parlare con le statue (chi ci è riuscito, come Don Juan Tenorio, in genere è finito male…). Ma negli ambienti affrescati o dentro le installazioni si può camminare.

F. Galluzzi

“Si può fare esperienza dell’Eden? O soltanto della sua perdita? Non è un caso che il mito del bosco sia da sempre un mito di perdita, ma anche di illuminazione. Beatrice interroga da tempo il bosco con la sua ricerca visiva, come luogo del disordine emotivo (in tutti i sensi buoni e preziosi del termine), ma anche Coe luogo dove si può riuscire a trovarsi. Un Eden ricercato, trasformato e interrogato attraverso le possibilità della materia – nelle sue differenti declinazioni. Un Eden che si può attraversare, fotografare, riprodurre artificialmente, per misurarne le sorprese e le possibilità. Il bosco viene riprodotto, messo in scena e portato direttamente nello spazio espositivo – come a dimostrare che i suoi significati sono moltiplicabili, mai riducibili. In fondo Beatrice è una donna, cioè, come ha scritto Franz Wedekind, un’anima che nell’Eden si stropiccia via il sonno dagli occhi.”

(dalla presentazione alla mostra di F. Galluzzi)

Il lavoro sul marmo dedicato alle foglie apre ad un valore condiviso della relazione tra il tempo e la natura. Il principio resta la collaborazione tra entità coesi- stenti che sembrano appartenere ad ordini di grandezza differenti, ma nascondono l’essere identici. L’arte è una parte della natura e viceversa. Può fermare e tramandare memorie positive di un afflato che non si deve dimenticare. L’artista ricama finemente la durezza della materia cercandone l’ultima natura. Una dopo l’altra le foglie rivelano il biancore di una materia eterea. E’ una forma che viene restituita, la creazione ricrea l’esistente, anche nel variare dei materiali Beatrice mantiene il senso di un’autentica rivelazione. L’arte, lo ripetiamo, non è in concorrenza con la natura perché ne diventa una componente, agisce sulla memoria legata agli archetipi, a qualcosa di cui non possiamo fare a meno, anche se la velocità dell’esistere oggi non consente di prenderne parte. Il tempo della scultura si riprende la vita, diventa genesi in questi lavori preziosi e poetici come lo stupore della semplicità.

                                                                                                                               Valerio Dehò

Quando spunta una foglia è come se nulla accadesse: si rimane in attesa, come fanno gli insetti, che sboccino i fiori, che maturino i frutti.
È piuttosto quando una foglia muore che si insinuano nei pensieri di tutti riflessioni complicate e preoccupanti.
Una foglia che nasce non ha storia, una foglia che muore è un’esperienza compiuta, ha dato forma al suo destino.
Proprio come le foglie che da tempo ormai scolpisce Beatrice Taponecco.
Quella che abbiamo qui è una foglia larga, soffice e liscia, priva di nervature, che galleggia nell’aria, come ripiegata in sé stessa, ma senza accartocciamenti, che viene sorretta nella sua spinta verso l’alto dallo sviluppo impetuoso di un’onda, mentre all’altro capo ripiega le sue ali, per come il movimento viene completamente riassorbito da un corto risucchio della forma, che costringe la schiuma a ridiventare marmo.
Una forma da cui si sprigiona una luminosità quasi impalpabile ma persistente, alimentata dall’intreccio di un ordito sottile, come di seta, con una trama soffice e vaporosa, che non intende rinunciare alla sua consistenza, come una cipria anche quando è costretta a farsi cenere nelle pieghe più nascoste, dove si rimpiattano le ombre più scure.

La sagoma semplice, come sempre sono le forme della natura, della foglia rimane comunque chiusa in una linea di contorno, fluida e senza interruzioni, persino sulle punte, che sono arrotondate e incurvate con ritmo e armonia, in una continua articolazione di piani aperti, che si sviluppano quasi senza spigoli, dal momento che gli angoli che sono stati smussati, ammorbiditi, o arrotondati del tutto.
In questo sviluppo si annida una sapienza antica, la via larga della scultura, che è capacità di ottenere, anche nella materia dura, lo sviluppo plastico di una leggerezza senza rigidità, adeguata a una forma così vivace che “non sta nella pelle”, levigata dal vento, consumata dall’acqua, calcinata dal sole, come un osso di seppia.
Si scoprono così corposità quasi animali, in questa che dovrebbe essere una forma vegetale. Una forma in cui si è adagiato un senso di quiete, ma non proprio di serenità, perché è comunque un clima di sospensione quello che si sente evaporare, come per una trepidante attesa.
Forse di un’altra “bufera che sgronda sulle foglie dure della magnolia”.

Massimo Bertozzi

Lavora a Carrara prediligendo per le sue opere il marmo statuario bianco delle Apuane. Ha realizzato, precedentemente le sue sculture presso il Laboratorio “Scultura e Design SGF” laboratorio che collabora ed ha collaborato con artisti quali: Max Bill, Jean Dries, Larry Kirkland, Silvio Santini, Maki Nakamura, Julio Silva, Roland Baladi ed attualmente presso La Cooperativa Scultori di Carrara situata nel Polo delle Arti di San Martino, dove eseguono le proprie opere tra gli altri Aidan Salakhova, Giuseppe Donnaloia e Pier Giorgio Balocchi.
Ha partecipato a vari Simposi di scultura tra cui il prestigioso “Simposio Internazionale di scultura su pietre del FVG” ed esposto in numerose mostre sia personali che collettive; ha vinto concorsi di scultura nazionali ed internazionali. Le sue opere sono presenti in collezioni pubbliche e private.
Scrivono sul lavoro di Beatrice Taponecco: Valerio Dehò, Alessandro Chiodo, Francesco Galluzzi, Piergiorgio Balocchi, Massimo Bertozzi, Bruno d’Udine, Angelo Tonelli, Paolo Asti

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